Esterovestizione societaria e la prova contraria

Esterovestizione è la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero al mero scopo di beneficiare del regime fiscale più favorevole vigente oltre frontiera. Per combattere questo fenomeno l’ordinamento, al realizzarsi di particolari condizioni, riqualifica la residenza fiscale del soggetto passivo.

L’articolo 73, comma 5-bis, D.P.R. del 22 dicembre 1986, n. 917 (c.d. “TUIR“) stabilisce, infatti, che, “salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del codice civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, se, in alternativa: a) sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato; b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato”.

Una volta riqualificata nel territorio dello Stato la residenza fiscale, la società estera, salvo che non superi la presunzione legale, sarà assoggettata a tassazione in Italia per i redditi ovunque prodotti nel mondo, in base al principio della tassazione su base mondiale (c.d. “world wide taxation”).

Per superare la presunzione di esterovestizione, la società estera deve dimostrare che la sua direzione effettiva non è in Italia, ma è localizzata all’estero, ossia che, nonostante i presupposti di applicabilità della norma, esistono elementi di fatto, situazioni o atti idonei a confermare un concreto radicamento della “sede effettiva” (luogo in cui in concreto si svolgono le attività amministrative e di direzione della società, ove si convocano le assemblee e si da impulso all’attività dell’ente) nello Stato estero.

In pratica ciò che interessa all’ordinamento non è la dimostrazione dell’esistenza di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, bensì la prova che l’operazione non sia meramente artificioso, e quindi non consista nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica e che configuri abuso del diritto di stabilimento.

Sul punto si osservi che, in linea con il principio comunitario della libertà di stabilimento, per vincere la presunzione di esterovestizione sta assumendo sempre più rilevanza probatoria il certificato di residenza fiscale, attestante l’assoggettabilità ad imposizione all’estero, rilasciato dall’amministrazione competente dello Stato membro di stabilimento della società.